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Treia Arena "Carlo Didimi"

Un’importante pagina della storia e della tradizione culturale di Treia è legata ad uno sport che ha contribuito ad accrescere la notorietà di questa antica cittadina marchigiana. Si tratta del « Gioco del pallone col Bracciale » il cui personaggio più rappresentativo è stato il celebre Carlo Didimi, immortalato anche da G. Leopardi che nel 1821 gli dedicò la canzone "A un vincitore nel pallone".
Il gioco del pallone col bracciale fa parte della grande famiglia degli sport sferistici, quelli cioè che usano come elemento fondamentale la palla. Il gioco del bracciale ha perciò radici antiche anche se il suo maggior sviluppo è avvenuto nell’epoca rinascimentale quando, favorito da principi e signori, raggiunse vertici tanto elevati di spettacolarità e notorietà da suscitare grande entusiasmo popolare e costituire argomento per componimenti di letterati e poeti.
Il gioco si praticava in speciali arene, dette "sferisteri", realizzate soprattutto nel XVIII e XIX sec. in molte città grandi e piccole dell’Italia centro-settentrionale. Queste arene avevano delle precise caratteristiche: innanzitutto necessitavano di un terreno piano e ben battuto, lungo dai 90 ai 100 m e largo dai 16 ai 18, con intorno un po’ di spazio per il pubblico e, soprattutto, era indispensabile un muro d’appoggio laterale alto una ventina di metri.
Lo sferisterio di Treia, costruito sotto i capimastri De Mattia e Graziosi, venne inaugurato nel 1818 con una spettacolare partita alla quale partecipò il giovane C. Didimi. Recentemente è stata trasformata in una strada con annesso parcheggio. In occasione della disfida, però, torna ad essere un campo da gioco.
Le squadre sono composte da tre giocatori detti, a seconda del ruolo, battitore, spalla e terzino. Vi è poi un personaggio estraneo al gioco, ma molto importante, detto mandarino. Costui ha il compito di lanciare (mandare) la palla al battitore, il quale scende con slancio da un trampolino inclinato cercando di colpirla col bracciale. E’ questa la spettacolare azione della battuta che, come nel tennis, mette in movimento la palla all’inizio di ogni gioco. E come per il tennis, anche per il bracciale il conteggio dei punti è ogni 15. Ogni partita è divisa in frazioni dette « trampolini », solitamente comprendenti quattro giochi. Tra le numerose caratteristiche tecniche che contraddistinguono il gioco del bracciale va ricordata la « volata », che consiste nella conquista del punto spingendo la palla fuori campo alle spalle dei giocatori avversari e la possibilità di utilizzare come appoggio il muro laterale che fa parte integrante del gioco in quanto su di esso la palla può regolarmente rimbalzare.
Ininterrottamente dal 1979 si celebra a Treia la « Disfida del Bracciale », bellissima manifestazione di risonanza nazionale che si tiene la prima domenica d’agosto. L’evento è preceduto da dieci giorni di festeggiamenti che iniziano l’ultimo venerdì di luglio. Si tratta di una specie di torneo nazionale che vede impegnate le squadre dei quattro quartieri cittadini per la conquista di un palio e di un trofeo da custodire per un intero anno. Per tutto l’arco di tempo interessato dalla festa, ogni sera Treia si anima. Nel contesto degli addobbi e delle scenografie predisposte dai quartieri, si aprono le caratteristiche taverne che presentano piatti particolarmente ricercati, si allestiscono botteghe artigiane che vendono i prodotti più vari, sempre legati alla tradizione più genuina, si attrezzano laboratori dove espongono pittori e scultori, si realizzano spettacoli itineranti con coinvolgimento degli spettatori, il tutto in un clima di grande festosità. Il momento agonistico della Disfida, poi, è preceduto e seguito da sfilate in costume e da rigorose cerimonie protocollari che si richiamano all’epoca di Carlo Didimi, cioè alla prima metà dell’ Ottocento.

 

"La balaustra di lontano sembrava quella di qualsiasi terrazzo, ma da vicino era poderosa… era la cimasa di una enorme scarpata che andava giù giù fino in fondo dove c’era una cosa che se fosse stata brutta, avrebbe potuto essere l’Inferno tanto era profonda ; ma era chiara luminosa, liscia come un’altra piazza dentro la cornice di un lungo muricciolo e di due scalinate : quello era il gioco del pallone… Il bracciale era un manicotto di legno duro con grossi spuntoni come un bugnato a punta di diamante, attraversato nell’interno da qualcosa a cui si afferrava la mano del giocatore.
I giocatori erano vestiti di bianco, calzoncini corti adorni di pizzi, legati al ginocchio con nastri sopra le lunghe calze bianche, scarpe basse, una giacchetta a sacco piena di falpalà e di trine come i matinée delle signore, in vita una sciarpa di seta colorata pendente da un lato con frange d’oro…
Per il gioco del pallone ci voleva un muro… a Treja c’era il muro, ma non fabbricato per il gioco, era il muro che sosteneva la più bella piazza pensile del mondo…
Da quel gioco del pallone era uscito un giocatore che se non era lui, era il diavolo ; per la bravura di quel diavolo trejese, il recanatese Leopardi scrisse l’ode A un vincitore nel pallone. Quando giravo… sotto le logge… era il nome ad entrarmi di prepotenza negli occhi tanto era scritto grosso in una lapide: Carlo Didimi".
Da “Giù la piazza non c’è nessuno” di Dolores Prato

 

CARLO DIDIMI

Carlo Didimi è stato uno dei più grandi giocatori di pallone col bracciale: da molti esperti considerato il più forte di sempre nel ruolo di battitore. Era figlio di Francesco e Pasqualina Ercolani, ambedue nobili, quindi ebbe titolo di conte; si dedicò all'attività atletica in età infantile. Fu un vero e proprio divo degli sferisteri osannato dai tifosi contemporanei e mitizzato in numerosi libri che esaltano le sue tante vittorie. Da ricordare, tra l'altro, il record del lancio della palla stabilito, nel luglio del 1823, nello sferisterio di Forlì, inaugurato proprio in quell'anno.
Il 12 dicembre 1828 sposò Casilde Broglio, dalla quale ebbe otto figli, dei quali due, Gervasia e Anna, morirono in tenera età. Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1831, Didimi essendo attivista mazziniano fu denunciato ma poi, quando diventò papa Pio IX, fu politicamente riabilitato svolgendo attività di amministratore comunale dal 1847 al 1849 a Treia. Grazie ai premi vinti nei vari tornei, accumulò una notevole fortuna: difatti nel maggio 1830 richiedeva per una sua esibizione un compenso pari a non meno di 600 scudi romani mentre un maestro elementare dello Stato Pontificio intascava dai 25 ai 60 scudi all'anno. Il campione morì da vedovo; a Didimi Giacomo Leopardi dedicò nel 1821 la canzone “A un vincitore nel pallone”, dopo che il poeta lo vide giocare nel celebre sferisterio di Macerata. Ammirazione per l’energia espressa nell’azione sportiva, l’agonismo e il rischio esempio universale d’impegno e di attivismo. Leopardi evoca il gioco del pallone al bracciale come metafora delle capacità fisiche e delle virtù morali e civili. Il campione Didimi infiamma l’arena che da luogo quieto e elitario diviene “echeggiante”.
Carlo Didimi incarna ideali di allora e valori sempre attuali. Diventa così mito ed esempio.

 

A un vincitore nel pallone
Di gloria il viso e la gioconda voce,
garzon bennato, apprendi,
e quanto al femminile ozio sovrasti
la sudata virtude. Attendi attendi,
magnanimo campion (s'alla veloce
piena degli anni il tuo valor contrasti
la spoglia di tuo nome), attendi e il core
movi ad alto desio. Te l'echeggiante
arena e il circo, e te fremendo appella
ai fatti illustri il popolar favore;
te rigoglioso dell'età novella
oggi la patria cara
gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
non colorò la destra
quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
che stupido mirò l'ardua palestra,
né la palma beata e la corona
d'emula brama il punse. E nell'Alfeo
forse le chiome polverose e i fianchi
delle cavalle vincitrici asterse
tal che le greche insegne e il greco acciaro
guidò de' Medi fuggitivi e stanchi
nelle pallide torme; onde sonaro
di sconsolato grido
l'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
della virtù nativa
le riposte faville? e che del fioco
spirto vital negli egri petti avviva
il caduco fervor? Le meste rote
da poi che Febo instiga, altro che gioco
son l'opre de' mortali? ed è men vano
della menzogna il vero? A noi di lieti
inganni e di felici ombre soccorse
natura stessa: e là dove l'insano
costume ai forti errori esca non porse,
negli ozi oscuri e nudi
mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch'alle ruine
delle italiche moli
insultino gli armenti, e che l'aratro
sentano i sette colli; e pochi Soli
forse fien volti, e le città latine
abiterà la cauta volpe, e l'atro
bosco mormorerà fra le alte mura;
se la funesta delle patrie cose
obblivion dalle perverse menti
non isgombrano i fati, e la matura
clade non torce dalle abbiette genti
il ciel fatto cortese
dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
nostra colpa e fatal. Passò stagione;
che nullo di tal madre oggi s'onora:
ma per te stesso al polo ergi la mente.
nostra vita a che val? solo a spregiarla:
beata allor che ne' perigli avvolta,
se stessa obblia, né delle putri e lente
ore il danno misura e il flutto ascolta;
beata allor che il piede
spinto al varco leteo, più grata riede.
(Giacomo Leopardi)

 

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